- Categoria: Attualità
- Scritto da Michela Oliviero
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Lo strano caso di Artemisia Gentileschi
Questo martedì, 8 marzo, i musei statali sono stati gratuiti per tutte le donne. Lo ha deciso il ministro Dario Franceschini, per celebrare così la festa della donna. Iniziativa interessante, soprattutto se colleghiamo il mondo femminile con il mondo dell'arte, dei quadri e delle statue. Sarebbe quasi impensabile l'arte senza la figura femminile, che essa sia la Venere profana e nuda o la misericordiosa Madonna. Ma anche regine, principesse, popolane, prostitute, tantissime donne, tutte diverse tra loro. L'arte, nel corso dei secoli, non ha mai abbandonato la Musa, e ogni artista riesce a cogliere un aspetto nuovo, straordinario, di queste donne, aspetti che nessun altro aveva visto o considerato.
Ma il mondo femminile non è solo bellezza. Ancora oggi la parità dei sessi sembra più un'illusione, che una conquista. I diritti per cui le donne hanno tanto combattuto e che sono riuscite ad ottenere nel corso della storia sono ancora solo una piccola parte di una completa parità. Ancora oggi le donne sono vittime di stereotipi, pregiudizi, imposizioni e convenzioni sociali. Giusto per fare un esempio, una donna non madre, o senza istinto materno, viene considerata quasi un essere strano, malformato, disfunzionale. Una donna viene giudicata per il suo lavoro, per le sue scelte, per il suo abbigliamento, per la sua vita sessuale, e tutti questi ambiti possono, agli occhi della società, stabilire il valore di una donna.
Andare dal notaio per fargli valutare un oggetto qualunque per destinarlo all'asta e venderlo al miglior offerente non sarebbe troppo diverso.
Purtroppo tra i portavoci di questo pensiero maschilista dominante ci sono tante donne che si aggiungono ai cori che, dopo l'ennesima notizia di aggressione e violenza sessuale, chiedono: "com'era vestita la ragazza?"
La ragazza. Nemmeno il diritto di essere considerata vittima. Donne che vengono prima violentate e poi derise e umiliate da tutti gli altri. L'altrui colpa diventa motivo di vergogna e la vittima non è più una vittima, bensì una specie di complice quando si usano frasi quali "se l'è cercata".
C'è una mano d'artista che ben comprende l'orrore, la violenza, le difficoltà e i pregiudizi. Mi riferisco ad Artemisia Gentileschi, pittrice seicentesca che portò lo stile della scuola di Caravaggio a Napoli. Si formò nella bottega del padre Orazio, a Roma, distinguendosi dagli altri fratelli per talento. Questa fanciulla crebbe nel fermento artistico della Roma di inizio '600, quando ogni donna era esclusa dal mondo lavorativo, e il suo unico ruolo sociale dipendeva dal suo status familiare. Il padre, oltre ad offrirle i mezzi per coltivare questo talento, si impegnò a promuovere l'attività della figlia quando ella compì la sua prima opera "Susanna e i vecchioni", quando Artemisia aveva solo diciassette anni. Quest'opera è significativa, perché sembra mostrare in Susanna il difficile rapporto che Artemisia aveva con il padre e con il pittore Agostino Tassi, due uomini così ingombranti nella sua vita di donna. Nei due vecchioni vediamo il padre che, stando alla confessione di Tassi, la trattava quasi come una moglie, e lo stesso Tassi, il maestro che doveva iniziarla allo studio della prospettiva, che nel maggio del 1611 la stuprò. Tale violenza non poteva essere accomodata con un matrimonio riparatore (sembra assurdo, ma il matrimonio riparatore è stato abolito solo nel 1981, sedici anni dopo la violenza subita da Franca Viola) perché Tassi era già sposato. Della violenza su Artemisia è rimasta un'esauriente testimonianza documentale sul processo che seguì.
Non ci stupisce sapere che Tassi ebbe solo una condanna lieve, ma dopotutto dopo quattrocento anni le cose non sembrano essere cambiate.
Per ridare onore e rispettabilità alla figlia, Orazio riuscì a combinare un matrimonio tra lei e un artista fiorentino, Pierantonio Stiattesi. Artemisia dovette seguirlo a Firenze, lontana da Roma, lontana dalla gente che conosceva il "peccato" di cui si era macchiata.
Di questo orrore non resta che un dipinto, "Giuditta che decapita Oloferne". È chiara l'ispirazione al dipinto di Caravaggio, ma in questo dipinto si legge la rielaborazione di un dolore, di un'atrocità. Giuditta spinge con tutte le sue forze la spada nel collo di Oloferne, tenendolo per i capelli: la tela, risalente al 1613 circa, subito dopo il processo, vuole essere un tentativo di rivalsa della donna contro il suo stupratore, la vendetta per la violenza subita dalla quale il padre non l'aveva protetta e per la quale non era stata tutelata. Tassi non sarà mai punito per quello che le ha fatto, ma ogni volta che qualcuno al museo di Capodimonte si ferma, sconvolto e meravigliato, davanti a "Giuditta che decapita Oloferne", Artemisia mozza la testa al suo stupratore e diventa l'eroina della storia.
Ci sono ancora tante vittime che l'Italia non considererà tali, che la società continuerà a denigrare e a colpevolizzare, tante donne che non diventeranno mai Giuditta, ma che resteranno nell'ombra ad aspettare che i lividi e i tagli guariscano da soli.
Questa giornata deve servire a ricordarci di loro, a celebrare la donna in quanto essere umano, simile e pari all'uomo, per fermare il numero orrendamente crescente di queste vittime innocenti, per porre fine a questa strage di agnelli.
Michela Oliviero